Dal sogno americano all’incubo milanese

Quando ero ragazzino ho visto partire per l’America gli ultimi immigrati italiani dell’ondata del dopoguerra, erano gli anni Sessanta ed il mito del sogno americano incominciava ad appannarsi.

Ho assistito al progressivo svilupparsi dei movimenti migratori verso l’Italia e la partecipazione alle missioni internazionali mi ha fornito un quadro abbastanza chiaro di una situazione con molti punti oscuri e vaste zone d’ombra, ho conosciuto tante organizzazioni, soprattutto all’estero, che incentrano la loro esistenza sull’immigrazione, sulla base di un generico e non sempre ben definito concetto di solidarietà.

Appresi allora dai colleghi americani, ma oriundi italiani, che l’“American dream” di cui avevamo sentito parlare soprattutto negli anni Settanta si basava su una solida realtà organizzativa anglosassone in cui diritti e doveri erano un binomio inscindibile. Il fatto che un immigrato negli Stati Uniti parlasse la propria lingua era una cosa del tutto inaccettabile, molti oriundi italiani hanno voluto imparare l’italiano in seguito, per recuperare la loro cultura.

Quella cultura anglosassone così definita nei suoi aspetti di organizzazione della Società si respirava in ogni attività internazionale militare e permeava sia i militari che i civili statunitensi. Fu facile per me comprendere che l’integrazione di elementi diversi era una cosa lunga, complicata, difficile, che può avvenire solo in una solida e concreta realtà sociale, senza ideologismi e pensieri unici imposti dalla classe dirigente.

Il ribellismo anarcoide e la declamazione buonista non avevano allora alcuna cittadinanza negli Stati Uniti, il sogno americano era quindi una realtà i cui contenuti erano l’impegno ed il rispetto di una cultura fatta di pluralità religiosa, di conoscenza della storia americana, di conoscenza del valore dell’impegno umano.

Nel corso dei decenni questo quadro è mutato ed assistiamo in Italia e, in particolare, a Milano, alla predicazione ossessiva di un concetto di “integrazione” o, peggio, di “inclusione” che sono svincolati dal necessario quadro culturale in cui questa operazione può avere successo.

I luoghi del degrado in cui bivaccano persone private del futuro e della dignità da un’orda di organizzazioni immigrazioniste sono la testimonianza reale di come stiamo procedendo verso una Società confusa e priva di corpi intermedi. Dalla stazione centrale ai tanti parchi in cui vediamo svolgersi una vita di stenti e di negazione di condizioni di vita accettabili, risulta evidente come dietro il parossismo immigrazionista non ci sia l’equivalente di un sogno americano, ma solo un incubo che ci fa importare disperati ed esportare giovani qualificati e talentuosi.

L’ideologia immigrazionista è una metastasi in grado di inabilitare le strutture che dovrebbero fornire residenze per scopi sociali, di compromettere il mondo della logistica a favore dello sfruttamento dei riders, quelli che una volta si chiamavano fattorini, solo per citare due esempi tra i tanti che si possono fare.

Il business dell’immigrazione genera aree di degrado ovunque e compromette il funzionamento di scuole, strutture sanitarie. Le risorse che si sprecano nella filiera dell’immigrazione vanno a detrimento di tanti servizi che i cittadini non possono avere nella mobilità e nei servizi sociali.

Svegliamoci, non è un sogno, è un incubo.

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