Crisi globali e capacità di difesa nazionale. È tempo del ritorno a una coscrizione obbligatoria in Italia?

 

Il 9 novembre 1989 crollava il “Muro di Berlino”; era l’inizio di una nuova era per l’Europa, un’era di pace e di concordia fra i popoli.

Questo era ciò che pensavano gli europei, affrancati finalmente dall’incubo dell’olocausto nucleare e di una guerra globale che aveva attanagliato i cuori e le menti dei cittadini del “Vecchio Continente” per oltre un trentennio, quello della cosiddetta “guerra fredda”, caratterizzato dal confronto tra le ideologie che avevano dato vita ai due blocchi contrapposti di Nazioni costituenti, rispettivamente, la “NATO” e il “Patto di Varsavia”.

Il crollo dell’ideologia comunista e il conseguente dissolvimento della struttura politico-militare del “Patto di Varsavia” avevano spinto i governi occidentali, in particolare quelli europei, a riscuotere i cosiddetti “dividendi della pace”, tagliando in maniera affrettata e inopportuna i loro bilanci della Difesa, convinti che mai più una guerra, come quelle che avevano sconvolto il mondo del XX° secolo, avrebbe devastato il suolo europeo.

Da tale “visione” discese il progressivo, drastico ridimensionamento dell’apparato militare occidentale che, basandosi sul concetto di Forze Armate di piccole dimensioni formate da personale volontario ben addestrato e qualificato, sarebbe stato sufficiente a garantire la sicurezza e la deterrenza nei confronti di minacce che si reputavano essere portate per lo più da entità non statuali, di matrice essenzialmente terroristica, le quali avrebbero potuto produrre conflitti episodici e a “bassa intensità”.

In maniera superficiale e, spesso, sconsiderata sono stati ignorati – per incapacità di valutazione o per colpevole convenienza – i molteplici segnali di allarme che giungevano da nazioni quali Russia e Cina che, nel corso degli anni, procedevano senza sosta al costante potenziamento dei rispettivi apparati militari, ponendo in atto vere e proprie aggressioni nei confronti di nazioni o regioni limitrofe ritenute, a loro dire, appartenenti alla propria “ sfera di interesse”: Cecenia, Georgia, Siria, Crimea, ne sono alcuni esempi. Inoltre, la continua penetrazione russa e cinese nell’Africa mediterranea e sub-sahariana, grazie all’attività di destabilizzazione e al supporto – più o meno velato – nei confronti di numerosi colpi di stato avvenuti nelle nazioni africane della fascia del Sahel, hanno sistematicamente soppiantato i governi filo-occidentali e portato al potere “uomini forti” orientati a loro favore.

Questa situazione esplosiva è giunta al culmine con l’aggressione della Russia nei confronti dell’Ucraina colpevole, agli occhi di Mosca, di aver voluto a tutti i costi liberarsi del “grande fratello” russo, tentando un avvicinamento ai valori e allo stile di vita del mondo occidentale.

Il ritorno, prepotente e inaspettato, dello spettro della guerra sul suolo europeo ha di colpo scosso dal proprio torpore l’Occidente che si è trovato – suo malgrado – a porsi la fatidica domanda: “ chi sarà il prossimo?” e, di colpo, si è scoperto estremamente vulnerabile e impreparato al rischio di essere il possibile prossimo bersaglio dell’espansionismo russo.

Anche in Italia, nonostante il “pacifismo militante” di certa parte politica, ci si è cominciati a interrogare su quale fosse lo stato del nostro apparato di difesa e le risposte non sono state per nulla confortanti. Per tradizione, nel nostro Paese, la Difesa è sempre stata – nel passato – considerata la cenerentola dei dicasteri governativi, spesso un contentino da assegnare a politici che non erano riusciti a farsi assegnare poltrone più “appetibili” e con “portafogli” ben più forniti. Negli anni della cosiddetta “spending review”, inoltre, si erano tagliati fondi a man bassa riducendo il personale all’osso, sciogliendo Enti e Reparti considerati troppo costosi da alimentare e mantenere colpendo, in particolar modo, le unità corazzate e di artiglieria, proprio quelle che – guarda caso – in una guerra “simmetrica” come quella che si sta combattendo sul suolo ucraino sono quelle maggiormente impiegate e che, molto probabilmente, saranno determinanti per garantire l’esito vittorioso della guerra per l’uno o l’altro dei contendenti.

Improvvisamente, anche in Italia, si è cominciato a dare spazio al “grido di dolore” che i Vertici delle Forze Armate hanno iniziato, sempre meno sommessamente, a lanciare nelle audizioni presso le Commissioni Difesa e in sempre più frequenti confronti pubblici. Gli Italiani hanno così scoperto ( o forse, riscoperto!) che la Difesa del nostro Paese ha urgente necessità di armamenti non più obsoleti, di adeguate scorte di munizioni ed equipaggiamenti ma, soprattutto, di PERSONALE.

Il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito ha recentemente dichiarato che per la Forza Armata occorrerebbero ben quarantamila unità in più, rispetto agli organici attuali, nell’eventualità che si debba affrontare un eventuale conflitto di tipo simmetrico (tipo quello che si combatte in Ucraina, per intenderci) e ha, finalmente, dato corpo a una esigenza imprescindibile per ogni Forza Armata, ossia la disponibilità di riserve prontamente impiegabili.

In Italia per lungo tempo si è fatto finta che il problema non esistesse dopo la sospensione della Leva ma, alla luce della situazione attuale di conflittualità che da ormai oltre tre anni imperversa nel cuore del continente europeo, il problema non è più procrastinabile.

Ma come risolvere il problema della carenza di risorse umane, per restituire un accettabile livello di operatività alle nostre Forze Armate?

Nella considerazione che i richiami di personale volontario congedato da non più di cinque anni (L. 331/2000, art. 2.f) di certo non riuscirebbero a supplire alle esigenze di uno strumento operativo che sia destinato a fronteggiare un conflitto simmetrico generalizzato (uno studio recente sui volumi annuali di coscritti “selezionabili o richiamabili” nella fascia di età 18-24 anni parla di circa 300.000 (trecentomila!) unità) e che le scarse strutture deputate alla selezione e reclutamento attualmente esistenti (Centro Nazionale di Selezione dell’Esercito di Foligno e i suoi tre/quattro Centri di Selezione dipendenti, dislocati sul territorio nazionale) non possano far fronte ad una esigenza di selezione o richiamo generalizzato, dal momento che a stento riescono a gestire i circa 8-10.000 selezionandi per i concorsi di arruolamento dei Volontari a Ferma Iniziale (VFI), occorre ripensare la discutibile decisione, presa a suo tempo, di smantellare il sistema dei Distretti Militari i quali costituivano la spina dorsale del sistema di reclutamento e mobilitazione delle nostre Forze Armate, sistema che – bisogna dirlo- ai tempi della leva funzionava come un orologio svizzero!

Ma quale sistema di reclutamento potrebbe essere considerato il più idoneo alle necessità di difesa nazionale? A personale parere dello scrivente, un sistema “misto” volontari/coscritti (leva parziale) potrebbe essere – allo stato attuale – il più funzionale alle esigenze immediate poiché consentirebbe di mantenere personale altamente specializzato e con anni di esperienza specifica nelle Unità operative destinate a svolgere attività di combattimento in prima linea e destinare il personale di leva alle Unità territoriali e logistiche non di aderenza, erroneamente spesso considerate di minore importanza ma, in realtà, pedine fondamentali per garantire un continuo e capillare rifornimento di personale, mezzi e materiali per i reparti di prima linea. Questo sistema consentirebbe di reperire personale (di leva) il quale, dopo un periodo di servizio attivo, venga congedato ma rimanga “agganciato” al sistema di reclutamento (possibilmente per alimentare la stessa Unità nella quale abbia operato durante il periodo di servizio attivo) costituendo finalmente una riserva operativa di personale che abbia avuto un addestramento di base che venga periodicamente “rinfrescato” con richiami “ad hoc”. Tutto ciò andrebbe opportunamente normato con leggi dedicate le quali garantiscano, da un lato, un ricambio del personale volontario presso le Unità operative effettuando un consistente “svecchiamento” dei militari prevedendone il trasferimento “ope legis”, al raggiungimento di una determinata età anagrafica che non superi – a giudizio dello scrivente – i 35 anni, nei ruoli civili della Pubblica Amministrazione e nelle Forze di Polizia ovvero garantendo l’inserimento di tale personale nel mondo del lavoro privato prevedendo concrete agevolazioni per le aziende/società che assumono, riconoscendo a tutti gli effetti le qualifiche e le specializzazioni conseguite in ambito militare, equipollenti a quelle previste in ambito civile. Dall’altro lato, per il personale di leva richiamato occorrono invece leggi che tutelino il posto di lavoro posseduto all’atto dei richiami e venga garantita la possibilità che tali periodi di richiamo vengano valutati con un incremento nel computo dei contributi lavorativi a fini pensionistici. In tal modo si otterrebbe la creazione di un “robusto” contingente di riserva, richiamabile in tempi brevi e formato da personale che sia in grado, fin da subito, di espletare le funzioni operative di base all’atto del richiamo.

È evidente che l’organizzazione e la messa a sistema di una struttura così descritta non possa avvenire dall’oggi al domani; tuttavia, si rende necessario che il mondo politico nazionale inizi a confrontarsi sull’argomento in maniera seria e costruttiva, abbandonando ogni contaminazione ideologica pregressa, se si vuole raggiungere – in tempi ragionevoli – una nuova organizzazione della Difesa adeguata alle sfide e alle possibili minacce del presente e del futuro.

Mauro Arno’

www.mauroarno.it

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